IRMA
Il mio nome è Irma, Irma la Rossa, così soprannominata dai conoscenti per il riflesso color fuoco dei miei capelli. Un giorno chiesi ai miei genitori il perché di quel mio nome, la risposta di mio padre fu semplice: più il nome era corto più si pronunciava meglio e si risparmiava anche fiato. La mia famiglia era così composta: papà Travisan Piero, mamma Forlin Carla e i miei due fratelli maggiori Luigi e Giovanni. Una comune famiglia residente in una piccola valle nascosta nel verde della montagna.
La nostra esistenza trascorreva serena e felice. Durante la stagione invernale, i miei fratelli scendevano a fondovalle a fare dei piccoli lavori, così potevano racimolare qualche soldo che avrebbe aiutato il magro bilancio familiare e fare a me una piccola dote. Intanto io e i miei genitori badavamo a quel poco bestiame che avevamo: un paio di mucche e una decina di capre, un anziano cane che non ho mai capito di che razza fosse che adorava mio padre e un gatto sornione la cui preoccupazione maggiore era di stare appisolato su una panca vicino al camino e di cercare di recuperare, nei momenti di nostra disattenzione, qualche buon boccone.
Cercavo anche di migliorare la mia scarsa istruzione, con l'aiuto del Prevost* che, una volta al mese, passava a trovare i vari nuclei familiari isolati, con la scusa di portare conforto religioso e notizie della valle, ma secondo me visto la magra che esisteva era anche per cercare di raggranellare qualcosa. La nostra era una delle tante piccole ma serene famiglie che vivevano coi magri ricavati dalla vita in montagna. Un giorno di primavera, una di quelle giornate in cui sembrava che la natura volesse farci ammirare tutta la sua bellezza, fu invece uno dei più infausto per noi. Mio padre insieme ai miei fratelli falciavano l’erba del prato davanti a casa, che essiccata, sarebbe servita nella stagione invernale come foraggio per il bestiame, mia madre stava lavorando nel piccolo orto ed io riordinavo la cucina.
Ad un tratto il vecchio cane ci avvisò abbaiando che qualcuno si stava avvicinando: mio padre si mise la mano sopra gli occhi e scrutò a valle. Una piccola macchia scura si arrampicava lentamente su per il sentiero; in un momento tutti noi fissammo quella macchia che pian piano si avvicinava: era il messo comunale. Restammo con il fiato sospeso, supponevamo il significato di quella visita, anche se in cuor nostro speravamo che non si verificasse mai: era il richiamo alle armi per i miei fratelli, Alpini nella Divisione Julia.
Eravamo nel 1941, si sapeva della guerra, ne avevamo anche parlato, ma speravamo che non ci avrebbe coinvolti, visto l’isolamento e la lontananza dalla città. Il giorno della partenza dei miei fratelli, mio padre li abbracciò e corse via con la scusa che aveva un lavoro urgente da finire; mia madre piangeva e pregava; io, che avevo solo quattordici anni, non capivo pienamente il significato della loro partenza, ma piangevo ugualmente. Tutto sembrava crollarci addosso. Poi, pian piano, ci riprendemmo un poco anche perché ogni tanto ci giungeva qualche notizia dai miei fratelli. Arrivò anche una cartolina dalla Russia, era di mio fratello minore Giovanni, diceva che stava abbastanza bene e ci ricordava sempre.
Ma un giorno la macchia scura ritornò, questa volta capimmo subito cosa era venuto a fare: portava un telegramma in cui era scritto: “Figlio maggiore deceduto eroicamente in Grecia, figlio minore disperso in Russia”. Una scura ombra scese in quella piccola casa; mio padre ammutolito se ne stava ore ed ore seduto su una panca fuori dell’uscio, mia madre piangeva e pregava con la speranza che almeno Giovanni tornasse.
Mio padre non resistette al dolore, lo trovai morto seduto sulla solita panca, aveva ancora gli occhi umidi; mia madre lo seguì poco dopo. Ero rimasta sola ed impreparata a tutto questo, non sapevo più cosa fare. Pian piano cominciai a reagire, vendetti le mucche e tenni solo le capre, perché mi impegnavano di meno; in un piccolo campo coltivai un po’ di patate e granoturco. Intanto era arrivato l’otto settembre (l’armistizio), e con esso anche la guerra fratricida. Tedeschi e fascisti rastrellavano le nostre valli portandosi via i pochi uomini validi rimasti e i nostri pochi viveri. Anche i partigiani chiedevano viveri e soldi, erano momenti bui per tutti, si viveva con la paura intorno. Arrivai a piangere, pregare ed anche a minacciare perché mi lasciassero in pace. Poi un giorno la guerra finì e io ripresi la vita quotidiana. Non pensavo più a mio fratello disperso, lo credevo morto anch’esso. Un mattino il vecchio cane cominciò a dare segni di inquietudine abbaiando e incamminandosi giù per il sentiero.
Mi affacciai all’uscio di casa, riconobbi subito quella macchia che si avvicinava: Giovanni era tornato!. Gli occhi mi si riempirono di lacrime per la gioia: anche per me finalmente era spuntato un piccolo raggio di sole.
DON ITALO
Donn, donn, donnn...! Quei lugubri e lenti rintocchi coprivano con il loro suono tutta la vallata. I pochi abitanti della borgata s’inginocchiarono togliendosi il cappello e facendosi il segno della croce in segno di rispetto: quello era l’ultimo saluto che rivolgevano a Cesira, l’anziana perpetua. Ormai eravamo abituati a quegli scarni e mesti saluti: la borgata stava lentamente, ma inesorabilmente, spopolandosi. I giovani avevano preferito allontanarsi dal paese pensando che la montagna non avesse più nulla da offrire loro.
Eravamo rimasti solo noi anziani, che non ce la sentivano di abbandonare i luoghi di cui conoscevamo ogni albero e anfratto, dove i legami con la natura erano una cosa sola. Siamo rassegnati e, uno alla volta, ci sciogliamo come neve al sole; ormai siamo ridotti ad una quindicina di anime, delle duecento e più che eravamo prima della guerra. - Maledetta guerra e maledetto chi l’ha voluta: perché ti sei così accanita su tante giovani vite, aiutando ad impoverire queste già misere valli?
A questo stavo pensando con gli occhi umidi, seduto sulla pietra tombale. Io, don Italo, unico sacerdote rimasto in tutta la valle; non me la sono sentita di abbandonare la mia chiesa, la mia gente, i miei monti. Sentivo di dover essere presente fino a quando l’ultimo dei miei parrocchiani se ne sarebbe andato per sempre e purtroppo quel momento si avvicinava.
Pensavo anche come era bello quando la borgata traboccava di vita e allegria con le sue semplici feste paesane, con gli uomini vestiti a festa che portavano su per le ripide viuzze la statua della Vergine Maria fino alla cappella del *Rok e le signore col loro libro di preghiere in mano che cantavano “Ave o Maria”. Per ultimi venivano i giovanotti che indossavano il loro vestito più bello, con la speranza di attirare l’attenzione di qualche fanciulla. 
Alla fine si estraeva dalle borse una ricca merenda: pane, formaggio, salame e qualche fiasco di buon vino; Giuanìn, con la sua *fisa, condiva tutto. Io, come parroco, regalavo ai bambini alcune caramelle, dono del Vescovo.
Feste semplici ma piene d’allegria. Non era raro che durante queste feste sbocciasse tra due giovani un sentimento più intenso. Bando alle malinconie. Devo ancora ringraziare gli uomini del corpo forestale per l’assistenza dataci: sono stati loro che hanno scavato questa tomba, noi quattro anziani non ce l’avremmo fatta. Il terreno, in questa stagione, è semi gelato.
Hanno anche pensato a far redigere il certificato medico della causa della morte della povera Cesira (causa naturale è stato scritto). Non lo dubitavamo, quando si raggiunge una certa età il momento del distacco può avvenire in qualsiasi istante. Ciao Cesira, domani, se le gambe me lo permetteranno, verrò a fare un giro. Non preoccuparti per le galline, ci sto pensando io.
Dimenticavo di dirti che gli uomini della forestale ci hanno lasciato dei sacchetti di farina, del riso, del sale ed alcune scatolette; ci sono anche dei toscani: non so come faremmo senza il loro interessamento, sono i nostri angeli custodi.
Dio li custodisca. Coraggio, vado a portare dentro un po’ di legna, prima che il buio arrivi, poi metto a bollire un uovo e delle patate, così la cena sarà pronta. Ciao Cesira, hai visto che sono ritornato come promesso? Lo so che ho tardato, ma ho dovuto aspettare che la neve se ne andasse dal sentiero. Come tu saprai, anche Toni ci ha lasciati; chissà a chi toccherà essere il prossimo: siamo tutti iscritti nella lista d’attesa.
Appena la neve si scioglierà andrò a cogliere dei bulbi di ciclamino: ne pianterò uno per tomba così ciascuno avrà il suo fiore perché, vedi, non so fino a quando le gambe mi permetteranno questa passeggiata. Le mie vecchie gambe non sono più quelle di una volta, di quando ero un giovane cappellano che traboccava energia da tutti i pori.
Lo so che è vietato raccoglierli, ma ho parlato coi forestali e loro mi hanno promesso che, per una volta, chiuderanno un occhio. Ciao ancora Cesira, adesso torno in canonica, do da mangiare alle galline e poi mi preparo qualcosa per cena e, se il sonno tarderà ad arrivare, penserò come al solito con nostalgia ai tempi passati. Ciao, ciao Don Italo
*: ROK - grosso masso in dialetto piemontese - (Fisa) fisarmonica