A 40 anni dall’uscita di “I Recuperanti” parla il protagonista della pellicola diretta da Ermanno Olmi. Il film venne ambientato sul fronte degli Altipiani, dove dal 1915 al 1918 si decisero le sorti del conflitto, con le truppe italiane tese ad arginare le spallate dell’esercito austro ungarico. La fine delle ostilità lasciò sul terreno una quantità esorbitante di materiali, garantendo, per quanto pericoloso, un sicuro lavoro per i residenti.
È un tipo mite Andreino Carli, oggi si gode la meritata pensione nella sua casa asiaghese, assieme alla moglie Ketty Dal Sasso. Nel 1969, esattamente 40 anni fa, fu il co-protagonista del film “I Recuperanti” girato sui Sette Comuni per la regia di Ermanno Olmi. Il 66enne padre di Cristiano, giornalista e collaboratore del quindicinale L’Altopiano, ha un ricordo vivo legato alla sua esperienza di attore. Nella primavera di quell’anno la RAI-TV diede il via alla lavorazione del film; Olmi, Mario Rigoni Stern e Tullio Kezich composero la sceneggiatura interpellando i veri recuperanti che per anni avevano girato il fronte dell’alto vicentino scavando e raccogliendo reperti abbandonati dalla Grande Guerra. La scelta del cast durò alcune settimane. Antonio Lunardi per la parte del vecchio "Du" fu notato all’osteria della contrada Buso di Gallio, Andreino Carli mentre in processione percorreva il giro della Rogazione.
“All'epoca avevo 26 anni – racconta il Gianni della fiction – lavoravo come agente di commercio della Faema, mi occupavo di arredamento bar. Dopo un veloce provino a casa di Olmi, mi richiamarono, andavo bene per la parte del reduce che torna dal fronte e deve reinserirsi alla vita civile, con tutte le problematiche legate alla disoccupazione, ad una vita ancor più dura per chi abita in montagna.” |
L'INTERVISTA ESCLUSIVA AD ANDREINO CARLI
Quanto durò la lavorazione del film?
“Quando i personaggi furono messi davanti alla cinepresa, la troupe aveva già girato parecchia pellicola sui paesaggi e per cercare i luoghi adatti alle singole ambientazioni. Le interpretazioni degli attori durarono poco meno di due mesi. Si alloggiava tutti all’albergo Erica, la cui cucina ci procurava pure i cestini per il pranzo in giro per il set”.
In quei momenti non sperava di diventare una star del cinema? Per quanto il film non disponesse di una grande produzione alle spalle, si trattava pur sempre di una occasione per cavalcare le luci della ribalta, Asiago faceva l’occhiolino a Cinecittà?
“Immaginavo che la mia carriera artistica sarebbe finita lì, ma nell’intimo un po’ sognavo, a quell’età è plausibile, da adulti si diventa più disillusi. Nei mesi successivi alla presentazione della pellicola fui contattato più volte, un pezzo grosso milanese legato al mondo cinematografico mi cercò per delle proposte in cui mi sarei affiancato ad attori già affermati. Pareva mi si spalancassero le porte di teatro e pubblicità, poi non se ne fece più nulla, tutto si fermò lì. Tra l’altro in quei mesi vinsi un concorso come liquidatore d’una società assicurativa. Era tempo di pensare alla stabilità economica, piuttosto che ad una incerta professione. Comunque per “I Recuperanti” fui ingaggiato con tutte le carte in regola, rispettando le norme emanate dal Ministero del lavoro, con tanto di cassa-mutua per artisti”.
Lei nel film è un recuperante per necessità che si affianca all’esperto “Du”, ma col radar in realtà c’è andato qualche volta in vita sua?
“Per carità! Della raccolta e vendita di residuati bellici so tutto, quassù è stata una realtà comune a molte famiglie, però non ho mai girato per boschi e pascoli col cercametalli e piccone. Da bambino ho comunque portato in spalla qualche sacco che conteneva cartucce e pezzi di ghisa, solo per guadagnare 50 o 100 lire, aiutavo cioè i recuperanti veri in cambio di qualche mancia. Se devo essere sincero nemmeno il film l’ho visto tante volte. Dal periodo successivo alla prima presentazione nel 1969 l’ho rivisto dopo 35 anni. Forse colpevole è stata un po’ di malinconia che mi sorgeva nel pensare a quell’intermezzo della mia vita”.
Con Ermanno Olmi che rapporti ha mantenuto?
“Lui viene spesso sull’Altopiano, ha casa qui. Per anni quando ci si incrociava per le vie di Asiago erano saluti e strette di mano. Ora lo incontro raramente, un saluto e via. Durante la lavorazione del film, anche fuori dal set, non mi chiamava Andreino, ma Gianni, come il protagonista della fiction. Diceva di apprezzare la mia semplicità nella recitazione”.
Ci racconta qualche particolare curioso?
“Con il vecchio Lunardi io avevo anche mansioni di interprete, l’anziano montanaro non comprendeva bene le direttive del regista, dovevo quindi tradurre le battute in dialetto, e confesso che il compito non fu dei più facili. Era un uomo introverso ma buono, pareva un bambino nel paese dei balocchi. Non aveva ben realizzato che si stava girando un film e in cuor suo sperava che le riprese non finissero mai. Credeva di aver trovato l’America. “Ah! Sti bisi dei foresti – diceva – non potevano venirmi a cercare 40 anni fa, quando ero più giovane e forte”. Un altro fatto che ricordo bene è legato all’esplosione avvenuta a Forte Corbìn. Si stava simulando la disgrazia occorsa a dei recuperanti intenti a scaricare una bomba, gli artificieri fecero la carica un tantino “pesante”, così che la deflagrazione fece sobbalzare tutta la troupe, ci spaventammo da morire, pareva fosse tornata davvero la guerra. Di tutte quelle sensazioni ed esperienze oggi mi rimane solo un bel ricordo, come è giusto che sia”.
di Giovanni Dalle Fusine
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