“Spunta l’alba del 16 giugno, comincia il fuoco l’artiglieria…” recita una delle canzoni più toccanti e famose del repertorio delle truppe alpine italiane. Fu scritta nel 1915, durante gli aspri e sanguinosi scontri per conquistare quel tragico Monte Nero. La vetta apparentemente inespugnabile, ma infine conquistata, sarebbe passata alla storia come “traditrice” delle giovani vite spezzate sui suoi aspri crinali. Ma dopo due anni esatti di devastante guerra di materiali, e un lungo e doloroso percorso di maturazione dell’esercito italiano (totalmente impreparato a questo nuovo genere di conflitto), un altro silenzioso ed eterno “traditore” si profilò all’orizzonte: questa volta il teatro ove si sarebbe consumata un’ennesima tragedia sarebbe stato l’Altopiano di Asiago, e il principale protagonista il Monte Ortigara.
I PRODROMI
Per capire cosa suggerì a Cadorna e ai suoi subalterni questa nuova, impossibile offensiva, bisogna riallacciarsi agli avvenimenti della primavera del 1916, che interessarono il suddetto Altopiano. L’esito della “Spedizione Punitiva” di Conrad von Hotzendorf, Capo di Stato Maggiore Austriaco, per punire l’Italia che aveva disconosciuto la Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali, ci costrinse a rivedere completamente tutto l’andamento del fronte, nel saliente Trentino.
Si trattò non solo di riposizionare capisaldi e trincee, ma soprattutto di studiare una rapida controffensiva. Questo per impedire al nemico di riprendere l’iniziativa da posizioni ancor più favorevoli, per poi dilagare nella la pianura veneta e prendere addirittura alle spalle le forze disposte sull’Isonzo.
Nell’autunno del 1916, esaurita la spinta offensiva austriaca, il Servizio Informazioni italiano era già perfettamente riuscito a farsi scappare il nome in codice e i relativi dettagli del piano di riscossa di Cadorna: l’Operazione K. Pare che persino sul Carso gli austriaci si facessero beffa dei nostri fanti, mostrando loro, sopra i parapetti delle trincee, grandi cartelli con scritto: “Quando farete l’operazione K?”
Dunque, l’elemento sorpresa non faceva ancora parte del bagaglio tecnico del nostro Servizio Informazioni. Aggiungendo a quest’ultima grave lacuna organizzativa l’arrivo imminente dell’inverno, Cadorna vide sfumare tutti i suoi sogni di rivalsa. Si sarebbe dovuta attendere la primavera del 1917 per riprendere le operazioni in grande stile.
Il lungo periodo di forzata inattività (l’inverno del 1916-1917, tra l’altro, fu uno dei più rigidi di tutto il secolo scorso) permise agli austriaci di fortificarsi ulteriormente sulla linea dal torrente Assa (sponda destra, poi sponda sinistra all'altezza di Roana) all'estremità orientale dell'Altopiano dei Sette Comuni, passando per i monti Rasta, Zebio, Colombara, Forno, Chiesa, Campigoletti e Ortigara.
Ciò che in particolar modo sfuggì completamente ai nostri servizi segreti e agli osservatori e ricognitori avanzati, fu la grande quantità di nidi di mitragliatrici, ricoveri e caverne che gli austriaci riuscirono ad approntare proprio sul pianoro che interessa Cima Dodici e l’Ortigara: gli stessi principali obiettivi che Cadorna si prefissò di conquistare facilmente nel giugno del 1917.
Lo Stato Maggiore Italiano fece ancora un tentativo per restituire all’”Operazione K” un velo di segretezza, e garantirsi un minimo di sorpresa, ribattezzando l’intero piano di battaglia in “Ipotesi Difensiva Uno – ma tutte le imponenti difese austriache erano la prova inconfutabile che il nemico ci aspettava, agguerrito, già da tempo.
LA VIGILIA
Sempre a causa del prolungato maltempo e delle abbondanti nevicate, l’Ipotesi Difensiva Uno risentì di un ennesimo posticipo – del resto l’Italia, nella primavera del 1917, è anche già impegnata sull’Isonzo, durante la decima “spallata” di Cadorna, intesa per investire la Bainsizza e assestarsi nel Vallone di Chiapovano.
La preparazione dell’offensiva in Trentino comunque, non subì battute d’arresto, e venne programmata anche una complessa azione diversiva, a sud-ovest del fronte principale di attacco, intesa a distogliere il nemico dall’urto principale, previsto sul margine nord-orientale dell’Altopiano.
Il piano italiano affidava al XX e al XXII corpo d'armata il compito di sfondare il fronte austriaco tra i monti Ortigara e Forno (il XX) e tra i monti Zebio e Mosciagh (il XXII). Tatticamente però, per raggiungere l’effettivo punto di contatto con le linee austriache, il nostro esercito doveva scendere dalle pendici di Cima Caldiera e di Monte Lozze, attraversare la “terra di nessuno” costituita dal pericoloso Vallone dell’Agnellizza e Pozza dell’Agnellizza, quindi salire lungo l’aspro bastione che porta alle cime 2003, 2101 e 2105, già in mano del nemico.
A complicare ciò che, da subito, appare un’impresa particolarmente difficile, contribuì l’artiglieria austriaca che batteva da nord-ovest tutto il percorso d’attacco suddetto, con il concerto di grossi calibri in Val Sugana e delle batterie da montagna ben rintanate su Cima Dodici, Cima Undici, il Castelnovo e, in generale, su tutto il pianoro dell’Ortigara.
Una disposizione ad arco dunque, che avrebbe permesso agli Imperiali di colpire facilmente tutto il campo di battaglia – che, dulcis in fundo, prevedeva necessariamente un pericolosissimo concentramento di truppe italiane in pochi chilometri di fronte. Un tragico e facilissimo “tiro al bersaglio”.
Ma a dispetto di qualsiasi previsione strategica, giunse comunque un’altra livida alba, gravida di morte, quella del 10 giugno 1917 – un altro giorno dell’obbedienza, del sacrificio silenzioso e del martirio preannunciato.
L'INIZIO DELL'OFFENSIVA
Preceduti dall’immancabile massiccio bombardamento preparatorio (di modestissima efficacia, ahimè), le truppe italiane scattarono all’attacco verso le tre pomeridiane del 10 giugno. Anche la nebbia e la pioggia, frammista a gelido nevischio, si schierarono contro i fanti d’Italia, a guisa di estremo tentativo per farli desistere da un impresa così ardua e giudicata impossibile già sulla carta.
Mentre il XXII corpo d’armata, schierato a sud-ovest del fronte, veniva bloccato da una fortissima resistenza (e brillava prematuramente, sotto gli stessi attaccanti, anche una mina interrata a ridosso della lunetta di Monte Zebio), la 52° divisione alpina raccolse un iniziale, modesto successo.
Quest’ultima divisione era composta da ben 18 battaglioni alpini, suddivisi in due colonne, la Cornaro e la Di Giorgio. Attraversando il Vallone dell’Agnella, la prima colonna cercò di scardinare la famosa linea foritifcata “Mecenseffy”, realizzata dall’omonimo comandante austriaco del settore, spingendosi poi verso il Costone dei Ponari e il Monte Campigoletti.
In particolare, il battaglione Mondovì riuscì ad impossessarsi del Corno della Segala, supportato dal battaglione Ceva e dal Battaglione Val Stura.
Il primo tratto di reticolati austriaci del Costone dei Ponari fu analogamente travolto dall’impeto iniziale dei battaglioni Vestone e Bicocca, che subirono comunque gravi perdite e furono quindi arrestati sulla seconda linea di difesa avversaria. Proprio qui si trovarono estremamente esposti e alla mercè del tiro incrociato degli Imperiali. La Colonna di Giorgio si componeva invece dei battaglioni Bassano, Sette Comuni, Baldo e Verona, lanciati all’attacco per primi, e quindi dei battaglioni Clapier, Arroscia, Ellero e Mercantour.
A disposizione della stessa Colonna, come riserva, c’erano i battaglioni Spluga, Tirano, Saccarello, val Dora e il 9º reggimento bersaglieri. Il battaglione Bassano diede la scalata al Passo dell’Agnella (quote 2003 e 2101), inondando con il proprio sangue il Vallone omonimo, subito ribattezzato “Vallone della Morte”, mentre il battaglione Sette Comuni, dopo aver cantato a squarciagola l’Inno di Mameli, si lanciò verso quota 2105, la vetta del Monte Ortigara.
A quota 2101, ribattezzata dagli Austriaci “Cima le Pozze”, gli alpini del Bassano, orribilmente decimati, vennero salvati in extremis dai compagni del Val Ellero e del Monte Clapier, accorsi ad affermare la temporanea conquista. Fino all’alba i battaglioni Tirano e Monte Spluga agirono di rincalzo: iniziarono la discesa del Monte Campanaro e l’attraversamento dell Vallone della morte, illuminato dalle incessanti esplosioni. In questo tratto caddero un gran numero di soldati. Queste truppe fresche giunsero a quota 2.101 (Cima Le Pozze) e da lì avrebbero dovuto sfondare verso Cima Dieci e il Portule.
Si iniziò il tragico conteggio delle vittime: La 52a Divisione perse 35 ufficiali morti, 85 feriti, 2 dispersi; 280 militari morti, 1874 feriti, 309 dispersi.
Alle otto del mattino seguente, l’11 giugno, il generale Mambretti, posto a capo dell’intera offensiva, nonostante la sua notissima fama di “jettatore”, arrestò l’attacco, ordinando l’assestamento sulle posizioni conquistate. Ma il generale Como Dagna, al comando della 52° divisione, decise di sferrare un nuovo assalto. Nel pomeriggio dello stesso giorno iniziò quello che fu poi battezzato ed iscritto negli albi della memoria come il “Calvario degli Alpini”.
Il Verona e il Sette Comuni furono decimati nei continui e ripetuti attacchi contro Cima Ortigara, mentre il Val Arroscia e il Monte Mercantour si esaurirono contro l’’Opera Mecenseffy”.
Il Tirano e il Monte Spluga attaccarono nuovamente il Passo di Val Caldiera e la Cima Dieci ad ovest dell’Ortigara e raggiunsero, a prezzo di immani sacrifici, le posizioni nei pressi di Passo di Val Caldiera: furono però costretti a ritirarsi per non essere circondati dal nemico.
Ricorda il Tenente Don Luigi Sbaragli, Cappellano del battaglione Sette Comuni(2):
“Giù il parapetto delle trincee. Ecco i nostri petti saldi e compatti, che rimpiazzano le trincee. Ancora tre minuti. Via i reticolati! Eccoci pronti per la corsa alla gloria. Un bacio al Maggiore, un bacio agli altri ufficiali, un augurio; e gli aquilotti spiccano il volo. Ho come un fremito in tutta la persona... Cominciano a mitragliarci.
Avanti, e la seconda ondata ci porta sotto i roccioni a pochi metri dai reticolati. Giù una seconda volta; giù fra i sassi; giù col capo fra i piedi di quelli che sono avanti, giù e fermi, anzi, rigidi, senza respiro. Il nostro corpo deve confondersi col granito. Il nostro destino è formare un piedistallo eterno alla grandezza della Patria. Intanto l’ondata di nebbia che aveva ricoperta la valle sparisce. Ecco il sole ed ecco i camminamenti non più ricoperti da zaini ma da cadaveri... Impossibile?! Tutto il bombardamento è stato vano?
Le mitragliatrici in caverna! Le mitragliatrici in caverna sono intatte e falciano le nostre ondate... Qualcuno si agita, qualcuno tenta di alzarsi, qualcuno si strascina per tornare indietro, qualcuno ricade, qualcuno è nuovamente travolto, qualcuno tende invano le mani: le tende alla morte"
Alle perdite del giorno precedente si aggiunsero 12 ufficiali morti, 12 feriti e 1 disperso, 54 militari morti, 420 feriti, 54 dispersi.
CONTINUA IL CALVARIO DELLE "PENNE NERE"
Mambretti decise finalmente di sospendere l’attacco per almeno tre giorni. Il 15 giugno però gli austriaci passarono alla controffensiva, costringendo la granitica resistenza degli Alpini ad un ulteriore, sanguinosa prova.
Tutto ciò aggravato dalla precarietà estrema delle posizioni sulle quali si erano attestati gli italiani. Seguì qualche giorno di stasi e riorganizzazione su entrambi i fronti. Il 19 giugno lo scriterato Mambretti, anche sulla scorta dell’estrema libertà d’azione concessagli da Cadorna, decise di rifare tutto dall’inizio, senza cambiare una sola virgola del piano originale, fin troppo evidentemente mal concepito e destinato all’insuccesso.
Racconta l’allora Tenente degli Alpini, Paolo Monelli, nel suo celeberrimo “Le scarpe al sole”(1):
“I soldati s’allineano lungo la strada, contro la roccia. Non guardo che facce abbiano: ma sento al di là la tranquilla rassegnazione all’inevitabile. Da quindici giorni si assiste allo stesso spettacolo: escono battaglioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche giorno o qualche ora, i pochi superstiti...
Appena messa la testa fuori dalla trincea il dottor Dogliotti s’è preso un cazzotto da una spoletta che lo ha fracassato. Tutta la costa della Caldiera che si deve discendere è vulcanelli di granate; ma sembrano peggio le mitragliatrici cecchine che aspettano ai passaggi obbligati e fregano quasi sempre...
E poi, via per il Vallone dell’Agnellizza, colmo di morti, gli scheletri delle battaglie dell’anno passato, i cadaveri gonfi della battaglia di quest’anno che dura da quindici giorni. E un teschio sghignazza, lucido, accanto alla larva livida di un morto di ieri”.
Su Cima Ortigara e l’intera zona del Passo di Val Caldiera si riversò nuovamente la furia disperata e, allo stesso tempo, rassegnata delle due colonne della 52° divisione alpina. Entrarono in campo anche le riserve del 4° e 9° Reggimento Bersaglieri: questa volta Cima Ortigara venne conquistata definitivamente e ripulita dai nemici – un’impresa, per molti, realmente impossibile. Purtroppo però, tale successo durò pochissimo.
L'ULTIMO ATTO DELLA TRAGEDIA
Il 25 giugno, verso le 2,30, gli austriaci lanciarono l’”Operazione Anna”, intesa a far crollare ogni briciolo di velleità rimasta agli avversari e farli allontanare definitivamente dal settore. Con un tremendo e intensissimo tambureggiare di grossi calibri, proiettili a gas e persino l’impiego di brutali lanciafiamme, gli austriaci riuscirono nel loro intento: l’Ortigara era di nuovo loro.
Se fosse finita qui, gli innumerevoli sbagli strategici e tattici del Comando italiano, commessi anche in questa occasione, sarebbero stati “semplicemente” registrati nel libro nero delle inutili stragi, universalmente ordinate nel corso della Grande Guerra. Purtroppo non andò così e, dopo aver trascinato i poveri e spesso ultimi passi su questo tragico Golgota, gli alpini tutti si sentirono comandare, perentoriamente, di... tornare all’attacco!
Provati e sfiduciati battaglioni di alpini, fanti e bersaglieri si rigettarono nel carnaio del micidiale fuoco nemico per concludere l’ultimo atto del massacro. Il battaglione Cuneo, nuovo sul terreno dell’Ortigara, rioccupò la quota 2.003 che mantenne fino al 29 giugno 1917 quando fu catturato insieme al battaglione Marmolada e inviato nei lager austriaci.
Complessivamente la 52a Divisione perse nella Battaglia dell’Ortigara 12.633 uomini, dei quali ben 5.969 soltanto l'ultimo giorno, il 25 giugno. Pochi giorni dopo, il generale Mambretti, considerato l’unico, vero responsabile del disastro (per dovere di cronaca è necessario ricordare che Cadorna, a metà giugno, si era già rivolto nuovamente alla fronte Isontina, dopo aver perso interesse alle poco promettenti vicende dell’Ortigara – un suo classico atteggiamento che ne comprova le scarsissime abilità di reale condottiero ), fu rimosso dal comando. La stessa Sesta armata fu sciolta il 20 luglio, facendone confluire una parte nella Prima armata e una parte nella Quarta armata di stanza in Cadore. Mambretti finì a presidiare il confine Italo-Svizzero; a causa dei suoi reiterati e sanguinosi insuccessi, oltre che a confermargli la fama di “jettatore” , l’Italia intera fu certa di poter perdere, grazie a lui, anche una eventuale guerra contro la Svizzera!
Mentre i comandanti e tutti gli artefici di una delle più sanguinose battaglie mai combattute dall’esercito italiano, si ricoprirono di infamia che anche i posteri non sapranno mai cancellare, moltissimi furono gli eroi, immacolati nella loro estrema dedizione, caduti ad affollare quel terribile cimitero all’aria aperta che, ancor oggi, è l’intera zona dell’Ortigara.
Nel Sacrario militare di Asiago riposano in molti, di quegli intrepidi. La testimonianza forse più toccante di tutti quei nostri eroi della Patria, che il destino ha voluto trasmetterci, attraverso le brume del tempo, è quella del Tenente Adolfo Ferrero, del battaglione Val Dora. Ferrero, come tutti gli oltre 20.000 caduti di quel tragico giugno, non si faceva alcuna illusione. Nella sua ultima, straziante lettera (il testo integrale e' riportato piu' sotto) dedicata ai familiari e quindi affidata ad un attendente, egli si dichiarò pronto e quasi ansioso del sacrificio estremo, in nome della Partria. Ma, totalmente scevro di facile retorica e di, peraltro umani, sentimenti d’orgoglio , il giovane alpino seppe trasmettere a tutte le generazioni a venire quel messaggio di coraggio, obbedienza, senso del dovere, amor di patria e rassegnato, ma inevitabile, eroismo di cui trasuda, ancor oggi, l’intero teatro di battaglia.
Leggere la testimonianza di Ferrero (che per uno strano scherzo del fato, fu ritrovata soltanto pochi anni fa, tra i poveri resti del suo attendente), così come quella di Santino Calvi, di Giancarlo Conti e di Mario Tancredi Rossi, per citarne alcuni, non è solo un tuffo nel passato: è soprattutto una riscoperta di sè stessi e di quei valori che, fortunatamente e convenientemente sopiti e “congelati” nelle nostre tranquille esistenze, albergano da sempre nel cuore di tutti gli uomini veri.
Non è dunque retorica, almeno in questa circostanza, auspicare che tali eccelse ed innate qualità dell’animo umano non vengano mai più invocate, in tutta la loro invincibile potenza, per risolvere alcun genere di diatriba o di malessere dell’intero genere umano.
ag
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LA LETTERA DEL TENENTE ADOLFO FERRERO, BATTAGLIONE VAL DORA
" Cari genitori, scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire. Non ne posso fare a meno. Il pericolo è grave, imminente. Avrei rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che odio la retorica... No, no, non è retorica quella che sto facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole; sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa, ma orrenda.
Fra cinque ore qui sarà un inferno. Fremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa e rombi e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in questo istante medesimo sento in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove. Vorrei dirvi tante cose... tante.... ma Voi ve l’immaginate. Vi amo tutti, tutti....
Darei un tesoro per potervi rivedere... Ma non posso... Il mio cieco destino non vuole. Penso in queste ultime ore di calma apparente, a te, Papà, a te, Mamma, che occupate il primo posto nel mio cuore; a te, Beppe, fanciullo innocente, a te, Nina...
Che debbo dire? Mi manca la parola: un cozzar di idee, una ridda di lieti e di tristi fantasmi, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione... No, No, non è paura. Io non ho paura! Mi sento commosso, pensando a Voi, a quanto lascio, ma so di mostrarmi forte dinanzi ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anch’essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete. Siate forti come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto in guerra non è mai morto. Il mio nome resti scolpito nell’animo dei miei fratelli; il mio abito militare, la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa.
E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe.
O genitori, parlate, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratellini, di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro do me; sforzatevi di risvegliare in loro il ricordo di me...
Che è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi... Fra dieci, vent’anni forse non sapranno più d’avermi avuto fratello... A voi mi rivolgo. Perdono, perdono vi chiedo, se vi ho fatto soffrire, se v’ho dato dispiaceri.
Credetelo, non fu per malizia. la mia inesperta giovinezza vi ha fatto sopportare degli affanni: vi prego di volermi perdonare...
Spoglio di questa vita terrena andrò a godere di quel bene che credo di essermi meritato. A voi, Babbo e Mamma, un bacio, un bacio solo che dica tutto il mio affetto. A Beppe, a Nina un’altro ed un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre. A Voi lascio ogni mia sostanza. É poca cosa. Voglio però che sia da Voi gelosamente conservata.
A Mamma, a Papà lascio...il mio affetto immenso. É il ricordo più stimabile che posso loro lasciare. Alla zia Eugenia, il Crocefisso d’argento; al mio zio Giulio, la mia Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le armi e le robe mie. Il portafoglio (L. 100) lo lascio all’attendente. Un bacio ardente d’affetto dal vostro aff.mo Adolfo"
Ulteriori Approfondimenti :
TUTTE LE FASI DELLA BATTAGLIA (.pdf 3,39 MB)
LA POESIA "SIGNORE SE MAI UN GIORNO" DI EDOARDO BERTIZZOLO
Approfondimenti Multimediali: